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La storia

«I miei 16 anni e la lotta con il cibo»

Vigevano, il racconto di una studentessa di una scuola superiore della città dopo la diagnosi di anoressia

Davide Maniaci

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dade.x@hotmail.it

06 Aprile 2024 - 14:09

«I miei 16 anni e la lotta con il cibo»

Sorride, Giusy. Non è il suo nome, frequenta un istituto superiore della città, ha solo 16 anni. Il suo sogno è trovare un equilibrio con il cibo, non vederlo soltanto come un dato, o come un pensiero che scandisce le giornate. Giusy soffre di un disturbo alimentare che sta imparando a gestire. «Solo nella mia scuola – rivela – conosco cinque persone curate nel mio stesso ospedale. Molte altre non sono riuscite ad entrare per la lista d’attesa infinita. Il mio primo ricovero risale al settembre 2022. Ma quando si esce non è finita: dayhospital, ambulatoriali... Non sono infatti ancora stata dimessa, si parla di 45 chilometri ad andare e 45 a tornare». Un percorso in salita dopo la diagnosi di anoressia, una grande lucidità nel descrivere quei mesi infernali, nello spiegarne i motivi.

Da Il Sole 24 Ore

«Sono partita – aggiunge – da restringere sempre di più. L’obiettivo era il ricovero, così la gente finalmente avrebbe percepito quanto stessi male, il mio dolore. Se ne sarebbe resa conto. Non comunicavo a parole, ma avevo bisogno di ascolto. Sono entrata in ospedale per uscirne dopo tre mesi. Mi sono però accorta di quanto per i coetanei la tua assenza da scuola sia quasi indifferente. Non era questa la soluzione giusta per chiedere aiuto. Poi lo stesso disturbo alimentare diventa una vera e propria dipendenza, l’unica cosa che puoi controllare. Non hai fame, non ti senti sazio. Anoressia, bulimia, binge eating (l’abbuffata) sono collegati. Io li ho, purtroppo, vissuti a pieno tutti e tre. Trovo per questo fuorviante basarsi sull’aspetto fisico per capire il rapporto di qualcuno con il cibo. La società non si rende conto di quello che avviene all’interno di un adolescente che desidera solo una mano ma non riesce ad ottenerla».

Dal Corriere della Sera


E allo stesso modo la soluzione non è mai uguale per tutti, non esiste una procedura universale: l’équipe deve conoscere il paziente, le sue dinamiche di vita, i suoi ragionamenti e, solo allora, poter concentrarsi a pieno per raggiungere un risultato. «Il “segreto” che sto capendo e che vorrei trasmettere è che bisogna slegarsi dal sintomo alimentare. Questione di coraggio, di affrontare sé stessi per davvero. Si sta male e non si sa perché, si controlla il corpo, si utilizza il cibo per trovare motivi e conforti. Si ricerca così una propria identità. Ma il malessere va affrontato in altro modo».

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