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Vigevano

La giornata degli Internati militari italiani

Sabato mattina la conferenza a San Dionigi, con biografie di caduti locali

Davide Maniaci

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dade.x@hotmail.it

19 Settembre 2025 - 16:04

La giornata degli Internati militari italiani

Li chiamano Imi, Internati Militari Italiani. Finalmente c’è una giornata nazionale che commemora i tanti soldati (si parla di oltre 600 mila) che, dall’8 settembre 1943 in poi, rimasero fedeli al Regno e vennero pertanto deportati nei campi di lavoro nazisti. La data, voluta dal Governo a gennaio, è quella del 20 settembre. Anche Vigevano la celebra: si tratta di una delle primissime città del territorio a provvedere.
Lo farà con una conferenza ad ingresso libero. L’appuntamento, proprio per il 20, è alle 9,30 presso l’auditorium San Dionigi della Fondazione di Piacenza e Vigevano. Vari interventi seguiranno quello introduttivo del sindaco, Andrea Ceffa, che aveva anche presieduto la conferenza stampa di lunedì scorso in municipio che presentava la mattinata. La moderazione è affidata a Giovanni Borroni, presidente della Società Storica Vigevanese.

La presentazione di lunedì


Gli Internati Militari Italiani, storia e memoria di un rifiuto”, la prima relazione, sarà a cura della professoressa Valentina Villa, ricercatrice di Storia delle istituzioni politiche presso la facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica di Milano. Poi arriverà un breve video di saluto del signor Andreas Jordan, presidente del Gelsenzentrum. Si tratta dell’associazione per la cultura regionale e la storia contemporanea della città di Gelsenkirchen, in Renania Settentrionale-Vestfalia. Si occupa del ricordo per le vittime di persecuzioni, esclusione e sterminio durante il periodo nazista.
Seguiranno le toccanti, commoventi, testimonianze dei parenti di due Imi. Per Pietro Farina le nipoti Maria Rita e Patrizia Merati, per Renzo Filiberti il gruppo di ricerca della biblioteca comunale di San Giorgio di Lomellina. Entrambi sono morti nei lager e fino a poco tempo fa solo i parenti ne conoscevano le biografie.
Infine, ecco l’intervento “Gli Imi che sono finiti nei lager gestiti dalla SS” a cura del ricercatore storico Marco Savini.
L’incontro, oltre che dal Comune di Vigevano e dalla Società Storica Vigevanese, è sostenuto dall’Aned, dall’Associazione Nazionale ex Internati, dall’Istituto del Nastro Azzurro.

Le biografie

Si chiamavano Pietro Farina e Renzo Filiberti. Come per tantissimi altri Imi (se ne stimano circa 600 mila) la loro storia è rimasta nella memoria dei familiari, e di pochissimi altri. Adesso tutti potranno conoscerla.
Classe 1923, cremonese, Farina, violinista, il 9 settembre 1943 è stato catturato in Jugoslavia, dove era arrivato con la settima compagnia Lanciafiamme, e condotto in Germania come prigioniero di guerra. Numero di matricola: 89056. Dopo vari spostamenti tra campi e miniere di carbone. Farina è deceduto nell’ospedale ausiliario di Gelsenkirchen-Buer il 22 maggio 1945 di tubercolosi polmonare. Nel 1958, a seguito dell’accordo tra Italia e Germania sul trasferimento dei caduti di guerra, la salma fu rimpatriata a Cremona. La sorella sarebbe poi emigrata in Lomellina per fare la mondina. Le sue figlie, le sorelle Merati, che saranno presenti il 20 a Vigevano, vivono qui da tempo e ne hanno ricostruito la biografia.

Pietro Farina


Di Renzo Filiberti si conoscono le tragiche vicende grazie al grande lavoro di ricerca della biblioteca di San Giorgio di Lomellina (la referente Adriana Vicini lunedì era in municipio, per la conferenza stampa) e del ricercatore storico vigevanese Valter Marchetto. Nato a Cergnago nel ‘21, residente nella stessa San Giorgio, Filiberti Il 12 gennaio 1941 fu chiamato alle armi e aggregato al 33° Reggimento fanteria carrista “Littorio”. Ricoverato all’ospedale militare di Bologna e successivamente di Milano, fu assegnato in modo permanente ai soli servizi sedentari. Si ignora la località della cattura, avvenuta a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Fu trasferito in Germania nello stalag 344 di Lamsdorf (ora Polonia) dove trovò la morte per malattia il 17 giugno 1944. Per lungo tempo si ignorò il suo luogo di sepoltura, prima del ritrovamento in Polonia.


LA PRIGIONIA DURATA DUE ANNI DEL MAESTRO CERVIO

La giornata dedicata agli Internati Militari Italiani (IMI) è l’occasione per ricordare come la Resistenza ai nazifascisti fu un fenomeno più ampio dell’attività delle sole formazioni partigiane. I primi “resistenti” furono, infatti, i militari che passarono anni nei lager e che si rifiutarono di combattere a fianco dei tedeschi e dei repubblichini di Salò o, riuscendo a sfuggire alla cattura dopo l’8 settembre 1943, formarono i primi gruppi partigiani.
Storie poco raccontate, che questa giornata, si auspica, permetterà di rendere patrimonio di tutti e renderle memoria comune del nostro Paese.
Nel 2008 l’Informatore vigevanese raccontò proprio la storia di uno degli Internati militari italiani, e riguardava una persona piuttosto nota in città: il maestro elementare Carlo Cervio (fino al momento della pensione, nel 1977) che fu anche assessore comunale (militò a lungo nel PSLI fondato da Saragat nel 1947, poi diventato PSDI) alla fine degli anni ‘60 e successivamente legò il suo nome per molti anni all’attività dell’AIAS vigevanese. Cervio era nato il 17 febbraio del 1921, morì, nel 2011, poco dopo avere compiuto 90 anni. Ecco il testo integrale di quell’intervista realizzata a maggio del 2008.


La giacca della divisa da sottotenente, con 200 lire cucite in una spallina. Un cappello russo, una camicia a fiorellini e dei pantaloni marroni. Vestito così, dopo due anni di prigionia nei “grand hotel” nazisti di tutta Europa, si è presentato a casa sua, alla Cascina Portalupa. Carlo Cervio oggi ha 87 anni e ricorda ogni dettaglio della sua vita da “internato militare italiano”, come portava scritto sulla schiena. È una storia che inizia il 9 settembre 1943 ed inizia nello stesso modo per più di seicentomila soldati del re e di Badoglio: i tedeschi occupano l’Italia e fanno prigionieri i militari italiani. Alcuni avranno il tempo di scegliere: partigiani o repubblichini, alcuni avranno solo il tempo di pregare prima di essere fucilati. Per quelli come Cervio, prigionieri senza alcun diritto e senza assistenza della Croce Rossa, inizia una vita da deportati, da lavoratori coatti nelle fabbriche e nelle campagne della Germania. La vita degli “schiavi di Hitler”. Mai riconosciuti, mai considerati nè dall’Italia nè dalla Germania. Ma questa è un’altra storia. Quella che Carlo Cervio racconta è la storia di un ragazzo di 20 anni, portato via da una guerra rovinosa. «Mi hanno chiamato alle armi all’inizio del 1941. Come caporale e poi come sergente mi mandarono in Grecia. Nel marzo del ‘42, a Rieti, perfezionai il corso per ufficiali. Col grado di sottotenente mi mandarono in Sicilia. Un anno dopo mi trovai a combattere contro gli americani che intanto erano sbarcati sull’isola». L’esercito alleato avanza e sfonda le linee italiane e tedesche. Il VI Fanteria Aosta, il reggimento cui apparteneva il sottotenente Cervio, ripiega a nord e a fine agosto è a Trento. L’8 settembre si avvicina. Il giorno dopo l’armistizio è quello della cattura. La prima tappa del viaggio di Cervio è la Lituania, il campo di Stablack, dove rimase solo dieci giorni. «I viaggi erano la cosa più terribile - racconta - Ci stipavano a decine dentro i carri bestiame, col filo spinato sui pochi finestrini... ». La seconda tappa è il campo di Deblin, in Polonia. «Lì sono iniziati i primi approcci per convincerci ad arruolarci nelle milizie di Salò. Io rifiutai, e continuai la mia prigionia». Essendo un ufficiale, Cervio non era un lavoratore coatto. Ma le condizioni di vita erano dure. «Si mangiava due volte al giorno una brodaglia con delle rape e 150 grammi di pane. Gli appelli, la mattina e la sera, duravano ore e si svolgevano con qualsiasi temperatura. Fu un inverno duro, si stava parecchio sottozero». Il marzo del 1944 iniziò un nuovo viaggio, infinito, dalla Polonia fino al confine con l’Olanda. Destinazione Oberlangen, un campo troppo vicino alle manovre alleate. Cervio fu quindi spostato coi suoi compagni a Sandbostel, dove incontrò un altro vigevanese, il maestro Mario Pagliano. Nuovamente gli fu chiesto, stavolta direttamente dai repubblichini, di combattere per Mussolini. E fu un altro no. A gennaio del 1945 i tedeschi decisero che anche lui doveva lavorare. «Mi mandarono da un contadino, dalle parti di Wiezendorf. Subito gli dissi che in base alla Convenzione di Ginevra io non intendevo lavorare. Lui mi guardò e mi rispose: se non vuoi lavorare, almeno mangia. Era una brava persona e fu la mia fortuna, rimisi su quei trenta chili che avevo perso, fui trattato quasi come un figlio». La guerra è quasi all’epilogo, gli anglo-americani stanno per invadere la Germania da ovest, i russi da est, Hitler è vicino a capitolare. Cervio riesce a scappare dal suo campo, insieme a due compagni di prigionia, il 5 aprile. Da lì ad agosto è uno spostarsi di continuo tra campi di raccolta inglesi, dove comandò anche una compagnia che allestiva le tende e la logistica per i prigionieri liberati. Il 21 agosto, a guerra ormai finita, il sottotenente Cervio si aggrega a un autocolonna americana che in sei giorni lo riporta sino al Brennero. «Appena arrivati ci spruzzarono addosso quintali di Ddt per disinfestarci... Ma poi riuscii a partire, presi un treno per Milano, dalla Centrale andai a piedi fino alla Ca’ Bianca e da lì presi un tram per Abbiategrasso ». Da lì un camion completò il viaggio di ritorno a Vigevano: era il 30 agosto del 1945. «La mia famiglia non sapeva più nulla di me da gennaio. Chiesi subito di poter insegnare e quello di maestro è stato il mestiere che ho fatto tutta la vita». Senza mai riuscire a dimenticare nemmeno per un giorno i viaggi, gli stenti, il disprezzo dei nazisti e quel numero che gli avevano assegnato e che valeva più del nome: il 6119.

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