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in cucina
01 Marzo 2023 - 15:38
Genova, città sul mare, col porto e la lanterna che saluta i marinai ma le montagne subito dietro. Tanto che, se per alcuni il carattere degli abitanti (ma non è vero) ricorda più quello chiuso e diffidente di un montanaro rispetto a quello aperto e ciarliero dell’uomo di sponda, sicuramente sono i piatti a riportare più alla terra. Altrimenti s’invita il lettore a citare un elenco di piatti genovesi e a contare quanti sono di pesce e quanti no. Non è un caso che non lo sia la salsa più famosa, copiata e bistrattata di tutte, il pesto.
Il pesto genovese ha un disciplinare ferreo, con un elenco ben preciso di ingredienti. Foglie di basilico di Pra' giovani (quelle più piccole): il basilico adatto proviene tradizionalmente dalle coltivazioni poste sulle alture di Pra', quartiere genovese. Questo basilico, dal sapore delicato e non mentolato (qualità fondamentale), gode attualmente della denominazione di origine protetta. Poi olio extravergine di oliva della Riviera Ligure. L'olio prodotto in Liguria è tipicamente delicato (non "pizzica" e non "attacca in gola", soprattutto quello prodotto da olive di cultivar "taggiasca" della Riviera dei Fiori) e non molto fruttato, o meglio, "fruttato dolce" ossia con le note d'amaro e piccante non prevaricanti sulla sensazione di dolcezza. Pinoli italiani, meglio se pisani. Quelli della pineta di San Rossore, alla foce dell'Arno, sono i migliori. Parmigiano Reggiano stravecchio (invecchiato almeno 30 mesi): deve essere molto stagionato, anche perché in questo modo non si "cuoce" quando si aggiunge l'acqua di cottura della pasta per allungare la crema. Fiore sardo (formaggio pecorino particolarmente aromatico) con almeno 10 mesi di stagionatura. Aglio di Vessalico (Comune della bassa Valle arroscia imperiese), caratterizzato dal gusto meno intenso. Sale marino grosso, meglio se quello particolarmente forte delle saline di Trapani.
Soprattutto, il pesto va fatto al mortaio. Il frullatore gira troppo veloce e quindi ossida le foglie, facendole diventare nere. Si capisce quindi come quei vasetti del supermercato dal colore verde-grigio chiamati “pesto alla genovese” siano apocrifi, a dir poco. È la preposizione articolata a fare la differenza. “Pesto genovese” è quello vero. “Pesto alla genovese” è farlocco e ha di tutto: olio di semi, anacardi, latte in polvere. E poi ci lamentiamo quando gli americani vogliono l’ananas sulla pizza. Vale davvero la pena spendere un euro in più per la qualità, quella vera.
Il pesto ha una storia recente, non più di 175 anni. Due libri di ricette se la contendono. Nel 1851 il gastronomo Giovan Battista Ratto nel suo “Cuciniera genovese” illustrava: «Prendete uno spicchio d’aglio, basilico o in mancanza di questo maggiorana e prezzemolo, formaggio olandese e parmigiano grattugiati e mescolati insieme e dei pignoli e pestate il tutto in mortaio con poco burro finché sia ridotto in pasta. Scioglietelo quindi con olio fine in abbondanza. Con questo battuto si condiscono le lasagne e i gnocchi (troffie), unendovi un po’ di acqua calda senza sale per renderlo più liquido».
L’anno dopo Emanuele Rossi scrisse un altro libro, “Vera cuciniera genovese”, in risposta (pare) proprio a quello di Ratto, definito «troppo succinto». Chiamava la ricetta “pesto d’aglio e basilico” e suddivideva nel suo volume le ricette in base… al magro e al grasso. Una cosa inconcepibile adesso. Con molta probabilità anticamente, almeno nella ricetta nata nelle case contadine, non era prevista la presenza del Parmigiano-Reggiano, poiché formaggio raro sulle mense popolari liguri, ma soltanto il pecorino. Non il sardo, ma quello prodotto artigianalmente dai pastori dell'Appennino genovese. D'altronde i palati contadini delle epoche passate erano abituati ad aromi e sapori molto più intensi e, a volte, rustici di quelli attuali. Sembra probabile infatti che nei primi pesti andasse molto più aglio rispetto all’attuale, e che alcuni usassero ingredienti a piacere. Addirittura, maggiorana, prezzemolo o gouda, il formaggio olandese che arrivava in Liguria grazie ai mercanti inglesi.
Si tratta di uno dei formati di pasta più antichi di tutti, eppure è quasi dimenticato. Non sarebbe ardito definirli «dei maltagliati di crêpe». Sono i testaroli tipici della Lunigiana, valle del fiume Magra tra Toscana e Liguria, Appennino profondo, anticamente una delle zone più povere d’Italia. Il loro condimento principe, naturalmente, è il pesto, in questa zona di confine dove si sentono sia liguri sia toscani o forse nessuno dei due.
“Testarolo” perché l’impasto di farina di grano viene cotto sul testo, pentola in ghisa senza bordi e dalla forma circolare usata anche in altre regioni (la “torta al testo”, in Umbria, è una specie di piadina spessa). Il testarolo cuoce a contatto con il sottano senza mai essere girato: la parte superiore del disco di pasta cuoce quindi grazie all'irradiazione di calore fornita dal soprano. L'uso del testo era funzionale alle necessità di un'economia agricola e pastorale che, in lunghi periodi dell'anno, prevedeva il trasferimento degli operatori in aree lontane dall'abitazione abituale. Per cui pastori e contadini, nella necessità di cuocere il cibo, trasportavano il testo nelle nuove residenze provvisorie e qui, proprio grazie al prezioso strumento, erano in grado di preparare i cibi più disparati.
Comprando il testarolo lo si trova imbustato, e va tagliato manualmente. Essendo tondo, è impossibile ottenere delle losanghe tutte uguali. Al ristorante per fortuna ci pensano in cucina. Il sapore è quello antico delle farine povere, con vago sentore di castagne. La consistenza spugnosa è introvabile altrove. Consistenza eccezionale, così come il potere di trattenere il sugo. Il condimento della tradizione è quello povero, ripreso dal disciplinare Slow Food. Un pesto semplice di Parmigiano-Reggiano invecchiato 24 mesi inverdito da un trito di basilico. Si cospargono i testaroli con questo "misto" e solo dopo si aggiunge un buon olio extravergine di olive. L’alternativa è proprio il pesto genovese classico.
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