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curiosità
01 Aprile 2023 - 08:00
La piazzetta centrale del Principato di Seborga
Il paese batte una sua moneta autonoma, ha un inno, una bandiera bianco-azzurra, la targa automobilistica (Sb) e uno stemma. Poco importa che questi soldi non abbiano valore da nessun’altra parte e siano solo per i collezionisti, se si esce dal paese: ogni Luigino vale 6 dollari statunitensi. Non è solo per la bellezza del borgo ma anche per questa peculiarità unica che la gente visita il Principato di Seborga. Neanche 300 abitanti, arroccato in Liguria nell’entroterra di Sanremo, questa fettina di territorio si proclama indipendente da sempre.
Dal 2019 c’è una principessa, Nina Menegatto, democraticamente eletta pur con carica solo simbolica. Il motivo di questa rivendicazione, sentitissima in paese anche se in pochi la prendono davvero sul serio, è spiegato sul sito stesso del “principato”.
«Seborga divenne uno Stato indipendente già nel 954, con la donazione del conte Guidone di Ventimiglia ai monaci benedettini dell’Abbazia di Lerino, e nel 1079 divenne Principato. Nel 1729 fu venduta dai monaci a Vittorio Amedeo II di Savoia, ma l’atto di vendita non venne legalmente ed ufficialmente mai registrato e l’importo concordato per la vendita era di 147 mila lire sabaude, che la famiglia Savoia avrebbe dovuto versare all’abbazia di Montmajour e alla Repubblica di Genova per debiti precedentemente contratti dai monaci di Lerino. Questa somma non fu mai pagata da Casa Savoia: la Repubblica di Genova, infatti, continuò a considerare illegittima l’occupazione di Seborga da parte dei Savoia, e fece pressioni sulla Santa Sede perché fossero cacciati. Alla fine, Papa Benedetto XIV fu costretto nel 1748 a regolarizzare l’occupazione sabauda emettendo una bolla pontificia che riconosceva il protettorato sabaudo su Seborga. L’atto di vendita prevedeva che Seborga sarebbe diventata patrimonio personale del re senza essere annessa al Regno di Sardegna (tant’è che il pagamento sarebbe dovuto essere effettuato con le finanze personali del re e non con quelle del regno sabaudo). L’atto di vendita riguardava il semplice possesso dei territori di Seborga e non la sovranità su di essa, alla quale il re di Sardegna ha sempre rinunciato (tant’è che la dicitura “Principe di Seborga” non compare mai tra i suoi titoli ufficiali), limitandosi ad esercitare sul Principato di Seborga lo ius patronatus (il re era cioè semplice Protettore del Principato e non Principe), peraltro cessato nel 1946 con l’esilio dei Savoia dall’Italia. Conseguentemente nel 1815 nessun documento del Congresso di Vienna riporta – ovviamente – Seborga come facente parte del Regno di Sardegna. L’annessione, nel 1861, al Regno d’Italia e, nel 1946, alla Repubblica Italiana è pertanto da considerarsi unilaterale ed illegittima».
C'è anche la carta di identità
Qualcuno può osare dar torto a questa ricostruzione? Seborga, non dissimile da altri bellissimi borghi liguri di pietra, su in alto (tre per tutti: Dolceacqua, Apricale, Triora), viene visitato soprattutto per la curiosità di essere “altrove”, non in Italia, anche se lo si è a tutti gli effetti. Molti pensano che quella del principato sia proprio un carrozzone per attirare gente, numismatici in testa. Può darsi: ma almeno il palazzo dei Monaci e le viuzze valgono davvero i tornanti per arrivare fin quassù, fino al principato.
A Seborga e dintorni, in generale in tutta quella parte di riviera ligure che guarda decisamente alla Francia coi suoi lungomari (Bordighera ne è un esempio), si va anche per il cibo. Una cucina distinguibile da quella genovese o nizzarda. Una cucina che ha i suoi piatti come la sardenaira, la focaccia condita con pomodoro aglio e acciughe, o i barbagiuai, tortelli fritti di zucca
e formaggio. O ancora l’immancabile pesto. Il nome che colpisce leggendo il menù è però uno, per forza: il “brandacujun”. Si tratta di stoccafisso cotto insieme alle patate e all’olio d’oliva, ma descritto così non rende.
Il brandacujun, il tipico stoccafisso come lo preparano qui
Due strade, per l’etimologia. Siccome il piatto non viene mai mescolato col cucchiaio ma solo agitato nel tegame, tramite i manici, nei tempi antichi si pensava che la frase per “incitare” l’addetto all’operazione fosse «Branda cujun! Branda, che ciu ti u brandi, ciu u l’é bon!». «Mescola… cujun, che più mescoli più è buono», mentre il «cujun » scuoteva il pentolone accompagnandosi da energici movimenti del bacino. Un'altra corrente di pensiero vuole che i marinai preparassero tutto a bordo. L’unico modo per remare senza perdere di vista il pentolone e soprattutto il mescolìo, che doveva essere incessante, era quello di tenerlo tra le gambe. Tenerlo proprio lì, tra i cujun, che non diventano quindi più l’appellativo per l’uomo di fatica non particolarmente sveglio, ma i gioielli di famiglia. Il brandacujun, portata immancabile, somiglia lontanamente al baccalà mantecato veneziano (che a dispetto del nome, si fa con lo stoccafisso). Il merluzzo essiccato viene lessato con patate in acqua salata. Una volta scolata l'acqua, si aggiungono aglio, prezzemolo, olio extravergine di oliva taggiasca, succo di limone, sale, pepe. Poi, una volta posto il coperchio sulla pentola, questa viene "brandata", cioè scossa con energia fino al disfacimento e all'amalgamazione degli ingredienti, che non devono, comunque, essere completamente spappolati.
La sardenaira, focaccia condita con pomodoro aglio e acciughe
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