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La storia
04 Ottobre 2024 - 19:00
Una vita da romanzo. Vincere, cadere, essere a tanto così dal baratro e poi rialzarsi. Fabio Andolfo, vigevanese, 43 anni, ora è un bravissimo chef in un ristorante a Sestri Levante, in Liguria, la “Vineria della posta”. Sulle sue labbra splende il sorriso, ma non è sempre andata così. La sua è una storia di resilienza.
Uomo dalle mille esistenze, con una biografia da romanzo, Andolfo è stato folgorato in giovanissima età dalla canoa. Ricorda di avere conosciuto durante un bagno sul Ticino “un certo” Simone Lunghi, l’Angelo dei Navigli, volto noto a Milano. Sarebbe rimasto uno degli amici di sempre. La carriera di canoista per Andolfo è andata avanti a ottimi livelli con la conquista di vari trofei italiani giovanili nella seconda metà degli anni Novanta. Chi ha buona memoria della cronaca vigevanese ricorda quel ragazzino che, nel 1996, mentre cercava di creare una scultura in legno, diede inavvertitamente fuoco alla casa e a sé stesso e fu salvato per miracolo. Poi tornò a pagaiare. «La canoa – rivela – mi ha insegnato a sapermi adattare. A sopportare il freddo e il caldo, a gestire le necessità corporee in situazioni di emergenza, a trovare il modo per uscire dagli imprevisti. Tutte esperienze che mi sono state poi utilissime quando, per qualche anno, ho vissuto in strada».
Una “sliding door” della vita di Andolfo, un episodio di quelli che conducono a una svolta (la citazione viene dal film) è stata la mancata convocazione ai campionati europei di canoa. «Al mio posto, però, era andato Daniele Molmenti. Avrebbe poi vinto l’oro a Londra 2012. Magari senza quel torneo non avrebbe avuto le motivazioni per continuare. Posso dire di essere sereno, ormai». Però, sul momento, la decisione è stata drastica. Appendere la canoa al chiodo per darsi alla barca a vela e avvicinarsi al mare. Un’altra vita, altre soddisfazioni. Subito dopo ecco il lavoro in palestra per un lungo periodo e il negozio di mountain bike aperto giù, in Oltrepò. «Nel 2011 – prosegue il vigevanese, che ha studiato al Vidari e poi al Casale – è nata mia figlia. Due anni dopo mi sono separato. Non sono stati momenti semplici dal punto di vista legale, tra gli avvocati, le cause, il mantenimento. Così ho mollato tutto e sono andato a Cagliari».
Per cambiare drasticamente, per l’ennesima volta, e lavorare in un ristorante prima della tappa successiva di questa vita errabonda, Courmayeur. E, da lì, Milano. «Cercavo Simone, era agosto, era assente. Così l’ho aspettato sui navigli. Ho dormito in strada. La seconda notte già mi avevano rubato il telefonino. Ero un clochard senza conoscere le regole, che ci sono. Dormivo di giorno perché era più sicuro. Avevo intuito che rimanere troppo in strada sarebbe voluto dire non andarsene mai più. Ci si abitua troppo all’alienazione». La resurrezione è stata quella comunità che lo ha accolto, che ha creduto in lui. Che si è fidata consentendogli di cercare un lavoro. E adesso c’è la nuova vita in questo ristorante, finalmente stabile. Finalmente con la gioia pura di alzarsi al mattino e fare ciò che faceva lo zio. Cucinare. E vivere in riva al mare.
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