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05 Ottobre 2017 - 11:11
Il premio nazionale alla carriera andrà a Roberto Vecchioni, uno dei cantautori più noti e amati, da più di quarant’anni, della scena musicale italiana. Ma il premio è per la letteratura e a darglielo sarà la città di Vigevano, sabato 14 al teatro Cagnoni come culmine della Rassegna letteraria, in una serata presentata dal giornalista Bruno Gambarotta. Un tributo che rappresenta un motivo di orgoglio e una giusta scelta: il personaggio è coltissimo e si è distinto anche come romanziere e come accademico.
«Sì, avevo già ricevuto delle onorificenze per i miei romanzi. Ma mai un premio alla carriera per la letteratura. Sono commosso, orgoglioso: è tra le cose più belle che mi siano mai capitate. Forse la scrittura ha quasi superato la musica? Ma preciso una cosa: il premio è “alla carriera”, ma la mia carriera non è affatto terminata». È un piacere parlare con Roberto Vecchioni: dalle sue parole traspare un sincero amore per tutto quello che è “cultura”, per la parola nell’evoluzione storica e nella scelta del lessico. Per l’enigmistica e per le lettere classiche.
Ma il tuo esordio come romanziere è tardivo. Risale al 2000, con “Le parole non portano le cicogne”.
«Sì, ed è anche uno dei libri a cui sono più affezionato. È la storia di un anziano linguista, che sa tutto sulle parole e insegna alla giovane protagonista come dentro ogni vocabolo ci sia un universo. È anche la mia visione. La parola rappresenta un’intera generazione di uomini, nasce in pochi mesi ma che, in realtà, sono secoli. La sua storia è antichissima e risale ai tempi degli indoeuropei, dei semiti, alla nascita dell’uomo stesso. Ed è bellissimo studiarla».
A Vigevano ci sarà un pubblico ad aspettarti, a sentirti. Hai in mente una traccia del tuo discorso?
«Parlerò di umanesimo e di quello che, per me, significa “cultura”. Capire il senso della vita, avere dubbi, voler comprendere gli altri. Essere liberi, avere passione, voglia e desiderio di conoscenza. Sono tutti concetti che cerco di trasmettere nei miei libri e nelle mie canzoni, per allontanarmi da quello che mi fa paura».
Cioè?
«Mi fanno paura l’incostanza dell’esistenza, le follie della mente, le idee integraliste. Chi crede di possedere la verità assoluta. La violenza e la non capacità di vivere in pace. Dovrebbe fare paura a tutti l’ignoranza “per scelta”, chi non vuole approfondire e “rubare” le conoscenze agli altri ogni volta che può».
Nel 2013 sei stato candidato al premio Nobel: hai mai pensato di poterlo vincere?
«Ma no! Le candidature vanno per segnalazioni. Ci sarà stato qualcuno che avrà voluto fare il mio nome. Fu emozionante saperlo e realizzare come, per molti, anche la canzone italiana è una forma d’arte».
A proposito: nel 2011 hai vinto Sanremo. Pochi se lo sarebbero aspettato, ma la tua canzone “Chiamami ancora amore” ha imposto uno stile: ora tutti provano a vincere il Festival con brani che partono piano e finiscono in crescendo, urlati, sofferti.
«Se è davvero influenza, è subliminale. Penso che, piuttosto che a me, si ispirino allo stile italiano classico. Che non si rifà alla ballata, ma alla strofa che parte piano e poi “va su” nel ritornello. Di certo, oggi, manca un po’ di originalità della musica italiana».
Pochi lo sanno, ma sei un enigmista. Crei giochi per la rivista “La Sibilla” firmandoti “Sergente York”.
«È una passione antica, che deriva dal mio amore sconfinato per la parola e dalla mia ammirazione per i Bartezzaghi.
Il figlio Stefano è un genio. Quello dell’enigmistica, arte straordinaria, è un mondo a parte, in cui è veramente raro trovare persone che la gente definirebbe “normali”».
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