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18 Novembre 2017 - 20:34
Michele D’amore presenterà il suo terzo romanzo, “Fronte del Fuoco” (pubblicato da M), domenica pomeriggio alle ore 17.30 nella sala delle Colonne del comune di Gravellona Lomellina (piazza Delucca 49). L’autore, nato in Sardegna e milanese d’azione, racconta con uno sguardo verista e una narrazione in presa diretta il mondo dei volontari dell’antincendio boschivo durante la stagione dei roghi attraverso la storia di John e Jack.
Ecco cosa ci ha raccontato Michele D’Amore.
Il nuovo romanzo è radicato nella tua biografia. Una domanda è d’obbligo: perché appena maggiorenne hai scelto di fare il volontario antincendio?
È stata una scelta di vita. La migliore tra tutte. Gli incendi sono un fenomeno che sentivo fin da bambino, da quando la mia casa è stata minacciata da un incendio nel 1981, avevo a tre anni. Il giorno dopo aver compiuto diciott’anni ho fatto richiesta di iscrizione. Ancora adesso sento che, durante i turni, sono nel posto giusto. Non ho bisogno di nulla quando vesto la mia uniforme da volontario.
Hai affermato che «la letteratura accende sogni e combatte problemi» e che spesso ha la capacità di evidenziare le cause sociali di determinate problematiche. Che cosa c’è all’origine degli incendi boschivi in Sardegna?
Gli incendi sono strumenti. Vengono accesi per svariate ragioni, altre volte partono per motivi fortuiti. Facendo il volontario ho scelto di non pensare mai ai motivi che portano a compiere un tale gesto. Mi fermo all’urgenza e metto tutto il mio cuore nello spegnimento. Il mio lavoro è quello. Per questo, nel libro, ho scelto di non raccontare mai nulla, è sempre come se l’incendio fosse partito da solo. Perché, in fondo, per noi è così. Inoltre è il mio modo di togliere ogni importanza a un gesto completamente stupido.
Il titolo del tuo romanzo evoca l’immaginario della guerra. Il libro, però, si legge come un romanzo di formazione, dove non mancano l’amicizia e l’amore. C’è un nesso tra la metafora del fuoco e la crescita dei tuoi personaggi? Che cosa hanno imparato dopo un’estate passata a spegnere incendi?
Una splendida domanda. E ti rispondo così. Non c’è niente che Jack debba imparare, durante il libro. Ma c’è qualcosa che deve ricordare. Chi è. In cosa crede. Quali sono i veri valori per i quali vale la pena vivere. Jack era plastica. Aveva scambiato i mezzi per il fine. Si era dimenticato la sua identità. Il suo caposquadra lo risveglia dal sonno. Ma la salita è dura. Durissima. Il premio però è la vita, sentirsi vivi. Come nell’incendio che vuole spegnere con le mani.
Quali autori sono stati essenziali nella tua formazione di scrittore? E quali sono i libri degli ultimi dieci anni che consideri importanti?
Elio Vittorini. Considero “Uomini e No” il punto focale di tutto quanto. Amo gli scrittori guerrieri, non gli intellettuali. Scrivere è un’arma da onorare in strada e non nei salotti. Vittorini ha fatto il partigiano e poi lo ha raccontato. È vita vera, è il mio libro preferito tra tutti. Il giornalismo della Fallaci. Il flow di David Peace. La dolcezza di Calvino in “Marcovaldo”. Verga, Zola, Manzoni, John King e Welsh, con il suo capolavoro Colla. Di italiani quest’anno ho amato alla follia Francesco Cascini con “Storia di un giudice”. Forse uno dei libri più belli che abbia mai letto.
Hai affermato che vivi la scrittura come una «necessità». La scrittura è il tuo fronte di fuoco?
È un argomento su cui sto riflettendo molto ultimamente. Forse perché per anni, e devo ancora perdonarmi di questo, l’ho vissuta dimenticando il suo valore. Per me è lotta. Non violenta chiaramente. Ma sociale sì. Anche in un romanzo, anche in una storia d’amore. Ci dev’essere la lotta. Scrivo ascoltando Gaber e mi rendo conto che spesso ci dimentichiamo (io per primo) la sua importanza.
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