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Il cantautore che non canta

Nohaybanda: Simone Zambelli scrive i brani e poi chiede la voce agli amici. Il primo album, di ottima fattura, si può ascoltare qui

Davide Maniaci

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dade.x@hotmail.it

02 Agosto 2025 - 19:00

Il cantautore che non canta

La caratteristica di questo cantautorato di chiara influenza americana, e di ottima fattura, è che... cantano sempre persone diverse. I brani li scrive tutti lui, Simone Zambelli, ma poi chiede la voce ad amici e colleghi. Da questa idea singolare nasce Nohaybanda. Se ci si pensa, il nome già rivela: «non ho una banda», dallo spagnolo.
«Sì, faccio cantare altri - spiega il 44enne di Palestro, impiegato amministrativo di professione - perché sono un cantante terribile. Stonatissimo. Per il resto invece scrivo, suono, registro, programmo e mixo io tutti i brani. Alcuni degli ospiti del disco hanno anche suonato uno strumento nel brano interpretato, oltre a cantare. Per il mastering invece mi sono affidato ad un amico, Andrea Invernizzi, della band Le Moire». Finora l’album è uno solo, “Cose che succedono ai vivi”, uscito su tutte le piattaforme (e, per pochi, in cd) nel 2024.

Qui di può ascoltare tutto l'album

Nei nove brani prestano la propria voce Stefania Tirone, Fabio Mantovani, Margherita Ragliani, Elena Marcon, Michele D’Agostino, Michele Gaietta, Davide Sandri, Federica Rocca e lo stesso Invernizzi. Proprio per l’oggettiva difficoltà di radunarli tutti nello stesso momento, finora Zambelli (che è anche chitarrista dello storico gruppo vigevanese Sick Dogs) non ha pensato a una dimensione live per il progetto. Ossia, di esibirsi in concerto. In compenso sta preparando il secondo album, sempre con la medesima forma. S’intitolerà “Il tempo non esiste”.
Ascoltando “Cose che succedono ai vivi” si dà importanza anche ai testi. Come “Alieni”, che descrive la vita nei bar di provincia vista da chi c’è cresciuto dentro e li frequenta ancora oggi, con tutti i suoi personaggi che risultano essere quasi degli alieni, appunto, se visti dall’esterno. O “Un pezzo allegro”: una gioviale canzone da oratorio che parla di morte. I suoni si potrebbero classificare come “indie”. «Sono influenzato - chiarisce l’autore - da tutto quello che ascolto e ho ascoltato. Da anni sono rivolto molto più verso la musica italiana, anche strettamente locale, piuttosto che verso le produzioni estere. A priori non avevo riferimenti specifici. A posteriori, ascoltando l’album finito, direi che le influenze che ho riscontrato di più sono quelle di Giorgio Canali, Zen Circus, Verdena e Le luci della centrale elettrica. Nei testi, che magari possono apparire quasi rassegnati, cerco di far trasparire uno slancio ottimista o comunque un invito a non abbattersi, nonostante effettivamente ci si possa intravedere un certo cinismo».

Un progetto nato pre pandemia: tanti brani in bozza, registrati in modo grezzo a casa con solo chitarra e voce, lì nel cassetto da far cantare a vecchi amici col pretesto di rivedersi. Poi l’idea sembrava funzionare. Gli arrangiamenti, alla fine, sono stati un filo più elaborati rispetto al grossolano intento di partenza. Il nome è un omaggio a David Lynch (dalla famosa scena in “Mulholland Drive”) e calzava a pennello per il progetto, dato che una band vera e propria che non c’è.

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Davide Maniaci

Davide Maniaci

Nato nel 1988, cresciuto a Vigevano. Interista. Giramondo compulsivo, comprendo sei lingue ma tutte in modo discontinuo. Sono laureato magistrale in storia, indirizzo contemporaneo. Attualmente mi sto laureando anche in geografia (si chiama Scienze umane del territorio dell'ambiente e del paesaggio, ma è la stessa roba). All'Informatore dal maggio 2016, mi occupo di vari temi ma sto davvero bene quando scrivo di musica, cibo, turismo, storie, paesini piccolissimi. Amo i Velvet Underground, i Suicide e i Morphine e dunque odio la loro nemesi, i Queen. Suono il banjo male e canto ancora peggio. Amo cucinare piatti da tutto il mondo, ma niente dolci.